Racconti di viaggio Eagle Festival

Eagle Hunters - I cacciatori di Aquile

Quando già più o meno verso i mesi di marzo/aprile del 2015 avevo deciso di ripartire, questa volta con un biglietto di sola andata e stare in viaggio per molto tempo, la meta principale che volevo raggiungere era l’India, volevo rimanerci quanto più tempo possibile, ma l’intenzione era quella di arrivarci via terra facendo un giro largo dall’Asia.

Inizialmente avevo studiato l’itinerario di massima (perché quando si parte per un viaggio in solitaria zaino in spalla e per molto tempo non si possono fare programmi di nessun tipo, è il viaggio che comanda) con l’ipotesi di partire dalla Turchia, tagliare per l’Iran e il Pakistan, ma facendo le dovute ricerche per i visti e la sicurezza dei vari stati che avrei dovuto attraversare non era poi molto fattibile, così dovetti rielaborare un altro modo.  Un giorno mi capitò di vedere un documentario sugli Eagle Hunters della Mongolia, dei quali avevo già sentito parlare, conoscevo l’argomento e tra l’altro già tempo addietro mi ero ripromesso di andarci, è una di quelle mete che non solo come viaggiatore ma anche come fotografo stanno sulla lista dei desideri.

Scoprii che ogni anno, ogni primo fine settimana di ottobre, si svolge nella regione di Bajan-Ôlgij il Festival delle Aquile, il Golden Eagle Festival, così iniziai a pianificare il viaggio partendo proprio dalla Mongolia, perché il primo ottobre disponibile ce l’avevo davanti a me e con la ripartenza perché mai non avrei dovuto sfruttare quell’occasione!?

Cominciai a guardare i voli per Ulan Bator e mi resi conto che dall’Italia erano molto cari, quasi stavo di nuovo abbandonando anche quest’alternativa, quando poi parlando al telefono con una mia cara amica conosciuta durante il mio primo viaggio in solitaria nel Sud-Est Asiatico del 2013, raccontandole dell’idea del viaggio e delle difficoltà che trovavo per arrivare in Mongolia con prezzi ragionevoli, mi disse: “ma scusa, ma perché non ci arrivi con la Transiberiana? Secondo me spendi meno e ti fai anche un’esperienza in più.” Geniale!! Non male come soluzione al problema e oltretutto anche la Transiberiana è una di quelle cose da fare almeno una volta nella vita, quindi mi misi a verificare che percorso potevo fare e quanto avrei impiegato per arrivare in tempo al Festival. Chiamai una mia amica che aveva studiato Russo, aveva vissuto e lavorato in Russia per molti anni, che aveva fatto la Transiberiana, e le chiesi se poteva aiutarmi a comprare i biglietti del treno direttamente dal sito delle ferrovie Russe in modo da pagare le tratte con i prezzi originali e non gonfiati delle agenzie che fanno da tramite per questo tipo di viaggio, mi procurai un visto per la Russia e un biglietto aereo di sola andata Roma-San Pietroburgo e così la partenza era definita, il 15 settembre del 2015 partii per quel lungo viaggio che complessivamente durò nove mesi. (ma magari gli dedico un’altra storia).

Ora dovevo avere almeno una vaga idea di come arrivare al festival delle aquile una volta arrivato con la Transmongolica dalla Russia a Ulan Bator, la capitale Mongola. Ho dei carissimi amici a Milano conosciuti anche loro durante il primo viaggio in solitaria, ci conoscemmo a nord del Laos appena superato il confine con la Thailandia. Vado spesso a Milano a trovarli e anche a loro stavo raccontando del viaggio che avevo in programma di fare. La compagna di uno dei miei due amici mi dice che un suo amico, un caro amico di vecchia data si era trasferito in Mongolia da diversi anni dopo essersi appassionato con gli studi sulla cultura mongola, tant’è che vive ad Ulan Bator dove insegna all’università e ha un tour operator che organizza viaggi in Mongolia avvalendosi di collaboratori mongoli e valorizzando il turismo coinvolgendo le famiglie ad ospitare i viaggiatori nelle loro Gher, o Iurte, le tipiche case Mongole, così da vivere un’esperienza local e stare a contatto con la vera Mongolia. Così presto fatto ho anche il contatto a Ulan Bator al quale scrivo una mail già prima di partire per la Russia, dove gli dico del mio viaggio, che ho intenzione di andare al festival delle aquile e che vorrei indicazioni su come arrivarci, e lui mi dice che una volta arrivato ad Ulan Bator, giusto il tempo di trovare una guest-house, di andare in ufficio da lui per organizzare il tutto.

 Ora, per una serie di ragioni che meritano senz’altro una racconto a parte per la storia che c’è dietro, l’inizio di quel viaggio in solitaria iniziato il 15 settembre 2015 da San Pietroburgo alla volta dell’India passando per l’Asia, con l’obiettivo intermedio del Golden Eagle Festival, per la prima parte che prevedeva la Transiberiana, la Mongolia e la Cina, alla fine lo intrapresi non più solo ma con una mia amica, con la quale ci separammo a metà novembre in Cina proseguendo ognuno per la sua strada, quindi una volta arrivati ad Ulan Bator ci recammo in ufficio dal mio contatto come previsto. Lui e il suo collaboratore avevano un appuntamento a Bajan-Ôlgij con due coppie di turisti Italiani che sarebbero arrivati a destinazione direttamente con un volo interno anche loro per assistere al Festival, per cui il programma era che io e la mia amica ci saremmo aggregati al contatto e al suo collaboratore che andavano da Ulan Bator a Bajan-Ôlgij in jeep. Faccio notare che la Mongolia è grande più o meno cinque volte l’italia e in tutto il territorio ci sono solamente tre strade asfaltate, quindi due aspetti balzano subito all’attenzione, il primo, che per raggiungere il Festival dalla capitale si devono percorrere all’incirca 2.000 Km di strada, il secondo, che finita la strada asfaltata principale che va in quella direzione non ce ne saranno altre e si guida o con l’uso del GPS o a naso. Viene in mente la famosa espressione del Dott. Emmett Brown di Ritorno al Futuro: “strade? Dove stiamo andando non abbiamo bisogno di strade!!”.


Giusto un paio di giorni per ambientarci e scoprire un po’ la capitale e siamo pronti per l’imbarcata, carichiamo i generi di prima necessità che ci serviranno per il viaggio, gli zaini, e via, verso l’infinito…e oltre!!! E’ la prima volta che viaggio in Mongolia e nell’immaginario ho quello che ho sempre e solo visto nei documentari, i paesaggi sterminati della pianura mongola dove regnano le immense nuvole e il cielo azzurro, i mongoli che vivono ancora come nomadi portandosi ovunque la loro Iurta, trasportandola ogni volta che cambiano di posto in base al cambiamento delle stagioni, perché gli animali che allevano sono la loro ragione degli spostamenti, se muore l’allevamento muoiono anche loro, tutto ruota intorno ai loro animali, dal sostentamento alimentare al vestiario, forse una volta lo era ancora di più, ma tuttora persiste lo stile di vita nomade nella stragrande maggioranza dei mongoli, tranne quelli che hanno deciso di vivere nella capitale.

Il primo giorno di viaggio lo passiamo tagliando la prima parte della Mongolia centrale, e facciamo sosta per la notte in una piccola struttura a conduzione familiare che ha delle camere e una piccola cucina. E’ la prima settimana di ottobre, le temperature iniziano ad essere rigide, durante il giorno c’è il sole che riscalda un po’ ma non basta, è d’obbligo vestirsi invernali, compreso l’uso della calzamaglia, dei calzini imbottiti, della maglietta termica, dei guanti, cappello e di un bel piumone o giaccone pesante che tenga caldo, la notte poi, con le temperature che scendono anche sotto lo zero è necessario un sacco a pelo che tenga certe temperature. La prima notte è andata, le prime 24 ore di macchina ce le siamo lasciate alle spalle, ma ci aspetta un altro intero giorno e il tragitto si fa sempre più difficile man mano che ci avviciniamo alla parte montuosa della Mongolia. Le strade sono sterrate e sconnesse, ci sono avvallamenti e parti di terreno che vanno proprio aggirati perché non ci si può passare in mezzo, foriamo anche.

Durante l’imprevisto della foratura, e le ruote della jeep su cui stiamo non sono certo né piccole né tenere, oltre ad ammirare lo sconfinato paesaggio che mi circonda, capisco anche in maniera empirica, tangibile, con il contatto ravvicinato all’esperienza che sto vivendo, il perché l’esercito di Gengis Khan ha potuto conquistare tutto quello che trovava davanti a se fino a realizzare l’impero che sarebbe diventato, e lo capisco da come il collaboratore del mio contatto approccia al cambio gomma, non dal punto di vista logistico, perché se hai il materiale necessario come lo si fa in città lo si fa anche in mezzo al nulla, ma dal punto di vista della forza e dalla stazza che lo contraddistinguono, cosa che ho notato non solo in lui ma anche in tutti i mongoli che avevo visto fino a quel momento; hanno una costituzione fisica, una struttura ossea impressionante, e non stento a credere che in un territorio come quello mongolo si siano evoluti in quella maniera, basti pensare al clima, all’alimentazione ultraproteica fatta di carne e formaggi, visto che non ci sono coltivazioni di verdura e frutta, e allo stile di vita nomade che fanno da sempre.

Riprendiamo il cammino e dopo un’altra estenuante ma bella giornata di viaggio, arriviamo finalmente a casa della famiglia che avrebbe ospitato per i prossimi quattro giorni in occasione del festival. Dopo averci presentato i componenti della famiglia e fatto vedere i letti, il bagno mongolo (una cabina in legno con all’interno uno scavo nel terreno profondissimo), esserci riposati un po’, ci aspetta la cena fatta con cura dalla donna di casa, a base di carne, patate, dei noodles in brodo, piatti che poi vedremo per tutto il tempo che trascorreremo in Mongolia, a pranzo e cena, in versioni diverse ma sempre con gli stessi ingredienti, solo a colazione c’è la variante che prevede in aggiunta un the salato, il pane, il burro e lo yogurt.

Siamo esausti, due giorni di macchia sono veramente tanti, ma il bello del viaggio è questo, si può essere stanchi e distrutti ma si è ripagati da tutto quello che si è visto e vissuto, e se tutto questo è anche a ridosso di quel momento che chissà quanto tempo prima hai sempre e solo immaginato, quando sognavi come arrivarci, quando solo pensavi a quello che avresti potuto vivere semmai si sarebbe realizzato, allora tutto quello che c’è stato per arrivarci è oro colato, non ha prezzo, vale tutta una vita.


Il festival dura due giorni e mezzo, inizia il venerdì mattina e termina la domenica verso pranzo, i cacciatori sono sparsi su tutto il territorio dove è stato allestito l’evento, chi in attesa di partecipare ad una prova, chi nel frattempo si prepara in disparte con la sua aquila, insomma si vivono anche loro l’atmosfera che si ripete ogni anno una sola volta. Tutt’intorno turisti, viaggiatori, fotografi, televisioni, documentaristi provenienti da ogni parte del mondo, che onestamente rendono l’evento un po’ troppo caotico, ma del resto è talmente affascinante quella realtà che chiunque abbia un minimo di spirito di avventura o sogna di andare a vederli con i propri occhi non può non esserne catturato, e quindi nonostante tutto il festival rimane uno degli eventi in cui si può vedere e vivere da vicino uno stile di vita di un popolo, di una cultura, che sì certamente negli anni ha perso quella poesia che poteva avere prima che diventasse popolare, ma il festival stesso da un lato è anche una manifestazione, una dimostrazione di orgoglio per chi appartiene a quella cultura. 

 Il lunedì successivo al festival il mio contatto e il suo collaboratore proseguiranno il viaggio in jeep con le due coppie con le quali avevano appuntamento, mentre io e la mia amica andiamo in contro a quella che si rivelerà ancora oggi quando ce lo raccontiamo una delle esperienze che ha segnato il nostro modo di viaggiare, due giorni interi di autobus per fare ritorno a Ulan Bator, con la differenza rispetto all’andata che stavolta l’autobus è al completo, i sedili sono stretti e non reclinabili, e il passaggio tra le file dei sedili che normalmente rimane libero è invece completamente pieno da borse e zaini che lo rende impraticabile. Al comando dell’autobus ci sono quattro conducenti che si alterneranno di volta in volta alla guida in modo da non fare pause che non siano per mangiare e andare in bagno, quindi l’autobus sarà in perenne movimento, giorno e notte, si vivrà per due giorni e due notti seduti, e vi assicuro che non è facile, è una tortura, oltretutto la notte i vetri ghiacciano dall’esterno e all’interno con la condensa colano di brina, quindi capita che all’improvviso di notte essendoti appoggiato al finestrino inizi a sentire un freddo glaciale che ti avvolge perché la tua spalla o la tua testa è a contatto col vetro. Il tempo è incalcolabile, si vive sospesi, l’unico appiglio è paradossalmente l’esperienza stessa, unica nel suo genere, di quelle che appunto potrai sempre raccontare, e il paesaggio che si ammira durante il giorno dal finestrino. Dopo due giorni arriviamo nella stazione centrale dei bus di Ulan Bator, appena scesi si prova una gioia indescrivibile e un senso di liberazione che provoca una sensazione di piacere anche corporale infinita paragonabile solo a poche cose, la vittoria dell’Italia ai mondiali, il primo bacio a quella persona che non ti fa dormire la notte, l’estinzione della cartella esattoriale. Prendiamo un autobus e ci dirigiamo verso la guest-house dalla quale non ci muoveremo per i prossimi due giorni. La maggior parte del tempo la passiamo quasi sempre in branda per poter recuperare sonno e raccogliere nuove energie che ci serviranno poi per i giorni a seguire, le prossime destinazioni saranno il deserto del Gobi a sud e un altro lungo viaggio per raggiungere a nord la Taiga, dove a cavallo raggiungeremo la popolazione degli Tsaatan, gruppi di famiglie che allevano e vivono con le renne.

La restante parte del tempo la dedichiamo invece alla ricerca di cibo verde, di frutta, di qualunque qualcosa commestibile che non sia carne, una sera riusciamo anche a trovare l’unico ristorante vegetariano in tutta Ulan Bator, un miraggio, e giuro che mai e poi mai avrei pensato in vita mia che potessi arrivare a desiderare così tanto una cena vegetariana al pari dell’estinzione di una cartella esattoriale.   

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