Intervista a Zanot per Terzani

L'intervista

Regista, sceneggiatore e giornalista, Mario Zanot alterna la sua attività di documentarista a quella di visual effects supervisor per il cinema. È membro dell'EFA, l'European Film Academy, del comitato scientifico della Scuola d'Arte Cinematografica Gian Maria Volonté e insegna alla scuola del cinema di Milano.
Zanot inizia a lavorare in RAI nei programmi Orizzonti della scienza e della tecnica e Teatro/musica. Con Bruno Munari realizza il pluripremiato documentario Dal cucchiaio alla città, storia del design italiano. Pioniere del digitale, nel 1985 porta in Italia il primo sistema di computer animation 3D della Abel Image Research di Los Angeles.
Con la Harvest Film Productions realizza il film Lassù dove vivono gli Incas, che vince il festival del documentario italiano Libero Bizzarri e la Rassegna Internazionale del Film Documentario di Trento.
Nel 2000 fonda la Storyteller, con cui realizza Il sogno di Leonardo, che vince il primo premio al Chicago International Film and TV Festival. Poi dirige per Discovery Channel e Mediaset numerose docu-fiction sui grandi personaggi della storia. Dall'incontro col premio nobel egiziano per la letteratura Naguib Mahfouz, nasce nel 2003 la sceneggiatura di Figli di un unico dio.
Nel maggio del 2004, due mesi prima della sua morte, Tiziano Terzani concede a Zanot la sua ultima intervista, che diventa il documentario Anam il senzanome, un grande successo di pubblico e critica.
Nel 2007 intervista nel carcere militare di Phnom Penh uno dei leader dei Khmer Rossi, Duch, sotto processo per lo sterminio di 17 mila persone. L'intervista diventa il documentario per la TV Il macellaio di Phnom Penh. Dal 2007 lavora come regista della seconda unità e visual effects supervisor per diversi film, tra cui Baarìa e The best offer di Giuseppe Tornatore, Habemus Papam e Mia madre di Nanni Moretti e Diaz, Don't clean up this blood di Daniele Vicari, per il quale nel 2013 vince il David di Donatello per i Migliori effetti digitali. In questi giorni è impegnato sul set del nuovo film di Giuseppe Tornatore La corrispondenza.

Sei un regista, sceneggiatore e giornalista, una grande carriera, quale è finora il lavoro che più ti è rimasto nel cuore?

Sai, mi sento soprattutto un documentarista che ha avuto la fortuna di girare il mondo. Sempre esperienze estreme, faticose, in luoghi lontani. Dagli ultimi Incas che sopravvivono nelle Ande peruviane ai Peyoteros del Messico; dai Dogon del Mali ai Pigmei del Camerun. Ma se penso al lavoro che mi ha cambiato la vita beh, questo è stato l’incontro con Terzani. Una manciata di ore, a soli trecento chilometri da Milano, ma travolgente. Perché il rigore, la saggezza, l’entusiasmo di quell’uomo che stava morendo mi hanno segnato per sempre. Scusa l’enfasi ma davvero - e credo non solo per me - esiste un prima e un dopo Terzani. 

Spesso i giornalisti raccontano la realtà, diciamo, in modo “politically correct”, viene dato risalto alla decapitazione degli ostaggi ma taciuti i massacri di interi villaggi fatti dalle bombe intelligenti, secondo te quale è l’etica che dovrebbe avere chi per mestiere sceglie di comunicare? Qual è la tua personale etica nell’attività di documentarista?

Devo essere sincero: ho la tessera giornalista, ma mi vergogno di ciò che è diventato il giornalismo in Italia. Professionisti veri, alla Terzani per intenderci, ne sono rimasti pochi. Gli altri sono diventati dei divi, degli attaccabrighe, interessati al gettone di presenza nei talk show, ai viaggi in prima classe in cerca di sensazionalismo a tutti i costi, spesso a costo di inventarla la notizia, quando non c’è. Burattini strapagati così narcisi ed egocentrici da fare domande che, spesso, sono più lunghe delle risposte. In tutto questo, la verità dei fatti è la prima cosa che va a farsi benedire. Il documentarista lavora col supporto dell’immagine, quindi ha - almeno in teoria - meno possibilità di ingannare il pubblico. La sua etica la si vede da dove mette la macchina da presa, dagli obiettivi che usa, dal punto di vista che sceglie. Se parli con un bambino, devi metterti all’altezza dei suoi occhi. E’ più faticoso, devi inginocchiarti e magari non ne hai voglia, ma lui se ne accorge. E poi devi stare in mezzo alla gente: non puoi documentare la fame nel mondo, come ho visto fare in Africa a quelli della FAO, viaggiando dentro le Land Rover con aria condizionata. Con quello che stai spendendo per stare al fresco potresti sfamarli! C’è da provare vergogna! Se non te la senti di andare fino in fondo, è meglio che te ne stai a casa o in albergo, a guardare la CNN e CBS e poi scrivere quello che hai visto in TV. Magari mentre pasteggi con aragoste e champagne.


Sei stato l’ultima persona a cui Tiziano ha rilasciato un’intervista. A causa della sua malattia, da tempo si negava alla stampa, come sei riuscito a convincerlo?

Ti confesso, questa è una cosa che ancora non mi spiego. Davanti al cancelletto di legno della sua casa all’Orsigna, Tiziano aveva messo un cartello minaccioso: "Ogni visita è sgradita, senza eccezioni". E c’era la fila di giornalisti che volevano intervistarlo, tutti infinitamente più famosi di me. Eppure alla fine, a me ha detto si. E’ stato il regalo più grande, più bello che ho ricevuto nella vita: la sua fiducia. Pensa che alla fine, dopo mesi di suoi gentilissimi rifiuti mi ero quasi rassegnato. Mi accontentavo di registrare la sua risata, che avrei montato alla fine di un documentario su di lui, il classico doc fatto con immagini di repertorio. Ma lui, dopo altre settimane di silenzio, una mattina mi chiama al telefono e mi dice: "Vieni, una risata non la si nega a nessuno". Anam è cominciato così. Quella cosa della risata era stata la chiave per penetrare dentro il guscio di tartaruga - sono parole sue - dentro il quale si era rifugiato.


Dall’ultima intervista a Tiziano hai tratto lo stupendo documentario “Anam, il senza nome”. Quanto ha significato per te quell’intervista e soprattutto quanto ti ha cambiato?

Vedi, l’intervista per me è stata un banco di prova tremendo. Mi ero preparato le domande, le avevo scritte e riscritte cento volte, anche perché amici comuni mi avevano avvisato che Tiziano era implacabile con le domande inutili. Ma poi è stato straordinariamente disponibile, non ha voluto leggerle prima, non mi ha imposto il classico "riprendimi con questo profilo, fai questo, fai quello". Sono stato libero di organizzarmi come volevo, compreso mettergli a soqquadro la casa per sistemare luci, telecamera e cavalletto, con lui che aspettava paziente e curioso. Avevo davanti una leggenda del giornalismo, uno che ha messo in crisi con le sue domande dittatori e capi di stato, eppure mi ha messo a suo agio subito, me e tutta la troupe. E questo mi ha dato una sicurezza che prima non avevo, una serenità che ora mi fa affrontare il mio lavoro con più distacco, con più ironia: cerco di andare alla sostanza, la forma viene dopo. E di scegliere argomenti che una volta forse avrei tralasciato. L’intervista Duch è nata anche per questo: sapevo che Tiziano avrebbe cercato di farla lui, se fosse ancora stato vivo.

Puoi raccontarci un episodio di backstage nell’intervista a Tiziano?

Uno per tutti: Lui che mi sgrida perché decido di cambiare la location della parte finale dell’intervista. Dovevamo farla all’aperto, davanti alle cascatelle d’acqua formate dal torrente che scorre sotto l’Orsigna. Ma quel giorno fuori faceva un freddo cane, lui aveva già interrotto un paio di volte la registrazione perché non stava bene, e allora avevo deciso di farla all’interno, al caldo. Non l’avessi mai fatto! "Tu devi difendere le tue idee fino in fondo, fregatene se sto male"! Fortunatamente, si era messo a piovere e l’intervista l’abbiamo fatta, gioco forza, accanto al camino. E poi noi tutti insieme che saliamo in montagna per filmare dei coniglietti appena nati nella cascina dei suoi amici contadini: voleva che li mettessi alla fine del film, è l’unica richiesta che mi fatto. Lui moriva, ma la vita continuava. Non piangergli in faccia è stato molto difficile.

Ho conosciuto Angela, la moglie di Tiziano, alla presentazione del film “La fine è il mio inizio”. Una donna eccezionale. Quanto ha inciso positivamente, secondo te, nella vita di Tiziano il matrimonio con Angela?

Tiziano lo ha creato Angela, non sto esagerando. E ha avuto la generosità di mettersi da parte, rinunciando al suo talento di scrittrice, perché - mi ha detto un giorno - "dei due, era Lui il più bravo". Ma dietro c’era sempre Lei come editor, a correggergli o a tradurgli gli articoli in tedesco per Der Spiegel. Gli è stata per 40 anni moglie, amica, amante, madre dei figli, ma anche critica feroce: non dobbiamo vederla come la mogliettina accomodante, la Penelope che accoglie Ulisse alla fine dei suoi viaggi. Ha saputo tenergli testa e, quando serviva, mandarlo anche a quel tal paese. Tiziano aveva un caratteraccio sempre inquieto, in fuga perenne da tutto. Si era calmato un poco soltanto negli anni finali della sua vita. Non deve essere stato facile stargli vicino, per Angela e per i due figli.

Il progetto di realizzare il film “Un Indovino ci disse” attraverso una raccolta di fondi volontaria, quasi fatta “porta a porta” è ambizioso. Tiziano sorriderebbe a vedere tutte le peripezie che si stanno affrontando per realizzare il film, quali sono le motivazioni che ti spingono a tenere duro? Cosa ti aspetti dalla sua uscita?

Angela dice che Tiziano, da iconoclasta qual’era, avrebbe approvato questo modo di produrre un film, fuori il più possibile dalle pastoie burocratico-istituzionali italiane. Nelle nostre cento e passa serate fatte finora in tutta Italia per presentare il progetto la gente arriva, si commuove, scopre un fine intellettuale il cui pensiero deve continuare a rimanere vivo, soprattutto in questo periodo così gramo. E ci finanzia, se può e come può. E’ un’esperienza esaltante, ci riteniamo fortunati di esserne stati il motore. E io sono convinto che le persone questo film lo verranno a vedere, perché racconta una storia fantastica, a cavallo tra realtà e magia, tra pragmatismo e scoperta della spiritualità, in location mozzafiato. C’è dentro molto in questo film, che abbiamo scritto con la complicità di Angela Terzani: compresa la malinconia del tempo che passa, i figli che diventato grandi e se ne vanno, la passione politica che lascia spazio a una pacata riflessione sugli errori di una rivoluzione che doveva cambiare il mondo. E guarda cosa ci ritroviamo.


Nel 2007 hai intervistato nel carcere di Phnom Pehn uno dei leader dei Khmer Rossi, Duch. Cosa hai provato nel rivivere attraverso i suoi racconti quei tragici momenti e a stare davanti all'uomo che per molto tempo nell'S-21 ha avuto come motto "Meglio distruggere dieci innocenti che lasciare un nemico vivo"?

Duch è un mistero. Pensa che, una volta fuggito dopo la liberazione della Cambogia da parte dei vietnamiti, è andato a curare nella giungla le stesse persone che, il giorno prima, massacrava. Lo avevo davanti, l’Eichmann cambogiano. Gentile, sorridente, preoccupato per me che non stavo bene (in quei giorni avevo preso la Dengue). Mi sembrava il classico nonnino al quale affideresti volentieri tua figlia piccola perché la porti al parco. Una sensazione odiosa. Mi affascinava il suo modo di parlare, la sua cantilena ammaliante, il suo sostenere - guardandoti dritto negli occhi - che non poteva fare niente, doveva eseguire gli ordini. In tutto questo turbinio di sensazioni giocava sicuramente il mio passato comunista. Insomma: l’idea di tornare alla "purezza del chicco di riso", il meravigioso slogan inventato dai Khmer rossi, era affascinante e anch’io, come Terzani e tanti altri, ci sono cascato.
Poi ci sono stati due milioni di morti, torture, angherie: ecco cosa significava, per Duch e Pol Pot, tornare alla purezza del chicco di riso. E’ stato un brusco risveglio. Ma quel vecchietto, che aveva sulla coscienza 17 mila vite strappate, non riusciva ai miei occhi a incarnarne il dolore. Solo dopo, andando a visitare i Killing field poco lontano da Phom Penh, camminando su quel cimitero di ossa, la confusione è finita per lasciare posto all’orrore, alla condanna della barbarie che quell’ideologia - ogni ideologia totalitaria in realtà - porta con sé. Senza però confondere il comunismo col fascismo. E senza dimenticare che i Khmer rossi, come tanti altri fenomeni di terrore succedutisi negli anni (cito solo l’Isis) sono stati un prodotto della follia della politica americana.

Gandhi diceva: “Occhio per occhio ed il mondo diventa cieco”. Madre Teresa diceva: “Non parteciperò mai ad una manifestazione contro la guerra, invitatemi però ad una manifestazione a favore della pace, ed io non mancherò”. Tiziano riprese fortemente questi insegnamenti dopo la caduta delle torri gemelle, ma nulla è cambiato. A questo punto è lecito pensare: servono davvero i movimenti pacifisti per tentare di cambiare realmente il mondo? Secondo te come è possibile nella società attuale comunicare efficacemente la pace?

E’ difficile purtroppo non solo comunicare la pace. E’ difficile comunicare. Mai come in questo periodo di comunicazioni di massa, di social network, di migliaia di canali satellitari ci sentiamo sperduti. Parlare, agire per la pace dentro e fuori queste gabbie spesso di disimpegno è importante, deve diventare la nostra ragione di vita. E’ l’unica cosa che ci permette di restare umani, di non cedere alla tentazione di dire "tanto non cambia niente". Tiziano ci ha creduto fino all’ultimo, gravemente malato si è rimesso in cammino, per dirci che "nessuna guerra ha mai messo fine alle guerre, che la violenza si combatte con l’amore".
Perché non è vero che niente cambia: solo cambia molto più lentamente di quanto vorremmo. Ma pensa ai passi avanti che l’umanità ha fatto nei diritti civili, almeno nei paesi occidentali. Oggi, con tutte le contraddizioni che ci indignano, i migranti riusciamo a salvarli. Certo, meno di quanto vorremmo noi, ma è sempre qualcosa. Dobbiamo insistere, dobbiamo diventare, come dice Folco Terzani parlando del padre, "dei combattenti per la pace". Pensa se dovessimo domani, perché abbiamo deciso di abdicare alla nostra coscienza civile, trovarci un Salvini a decidere le politiche dell’immigrazione. No! Si va avanti, tutti insieme, ognuno come può e per quello che può, inventandoci ogni giorno dei modi nuovi per far arrivare questo messaggio. Pace.

"Si può vivere senza felicità, ma non si può vivere senza speranza” è una frase che a me piace molto dello scrittore egiziano Naguib Mahfouz, premio nobel per la letteratura, con cui hai realizzato nel 2003 la sceneggiatura di "Figli di un unico Dio". Mario qual è oggi la tua speranza?

Spero in una vita serena, in un lavoro dignitoso per tutti, giovani e vecchi. Nel rispetto e nell’aiuto verso chi è meno fortunato di noi. Solo così cambia il mondo. E’ bellissima la frase di Mahfouz, che fu pugnalato quasi a morte proprio dall’estremismo islamico. Ma non ha mai smesso di lottare per la democrazia, anche per quelli che lo avevano pugnalato alla schiena.

Intervista a Zanot per Terzani